Nel mare magnum degli scritti che ad ogni livello e da ogni parte invadono la nostra quotidianità e il più delle volte danno vita a veri e propri libri destinati alla divulgazione, rare volte mi capita di imbattermi in qualcosa i veramente costruttivo.
Ieri sera al Museo del Sannio ho sentito parlare da illustri relatori di un libro particolare:
” Idem come sopra” (edizioni Creativa) di Giuseppe e Antonio Corbo.
Uno degli autori (Giuseppe) era presente e man mano che le parole altrui fluivano a rivelare le pagine scritte, mi sembrava di aver già colto per intuizione tutto il dramma delineato nel testo ed evidente sul volto di lui.
Il pensiero quasi indugiava, si fermava a raccogliere le sollecitazioni emotive per poi passarle in rassegna e individuarne la genesi, la struttura, le modificazioni, i segni che incidono nell’animo.
Ho assorbito con tutta l’anima l’amarezza, il dolore, l’impotenza, la voglia di ricerca e di riscatto, il recupero del tempo perduto e la condivisione del tempo ritrovato.
La particolare tensione era dovuta anche al fatto che i protagonisti, per un verso o per l’altro, hanno fatto parte, di più il giovane protagonista, della mia vita professionale.
In un baleno mi è tornato in mente il primo banco, troppo basso per uno spilungone di ragazzo biondo dal sorriso accattivante.
Solo che quel sorriso compariva poco sulle labbra, più spesso –ricordo- uno stiramento di muscoli facciali con un silenzio imbarazzante trafitto da uno sguardo inquieto.
Quello che si potrebbe definire un ragazzo taciturno.
Ieri sera il film della sua condizione esistenziale. Troppo facile additare le colpe, trovare il capro espiatorio.
Per osservare bene, bisogna calarsi dentro alle storie, non leggerle tutte d’un fiato.
Talvolta non è neppure necessario leggerle. Il libro io non l’ho ancora letto eppure lo conosco.
Un nonno importante, egregio nelle sue qualità e nella sua umanità, ma modello pesante che ha finito, suo malgrado, per arrestare la crescita di suo figlio, che, reduce dall’esempio incontrovertibile di alte virtù, è rimasto legato a quell’ancora, senza rischiare troppo, credendo di fare del bene propagando l’immagine e il ricordo del nobiluomo.
Ma la vita, si sa, va avanti con i suoi tempi, le sue scadenze, i suoi appuntamenti.
Tutto normale, ciò che normale non è. Normale creare una propria famiglia, non è normale porre al centro di essa non la propria responsabilità ma i “Lari” famigliari che distolgono il male e proteggono la prole.
Normale avere un figlio e dargli affetto sotto forma di soddisfacimento delle esigenze materiali mentre la bocca assetata inutilmente anela alla fonte paterna e troppo spesso si abbevera a quella dell’avo, ugualmente buona, ma priva della freschezza dell’ acqua sorgiva.
Non si ha il dovere di essere genitori- psicologi, impresa tanto difficile quanto impossibile dato che ad essere genitori s’impara “crescendo” insieme ai figli, e dunque spesso l’affetto, che non manca, ma è latente, produce mostri quali la solitudine, l’incomprensione, l’emarginazione, il distacco.
Senza saperlo ci si trova in una condizione d’impotenza, di accuse reciproche, di amarezza per abbracci negati, per parole non dette,per dinieghi subiti, per comunicazioni brutali quali i rimproveri che a chi li riceve sembrano sempre immotivati, le lacrime colme di odio, le porte sbattute in faccia alla vita, spesso in questi casi maledetta.
Si cerca spesso la soluzione altrove, ma è proprio in quell’altrove che si configura il dramma.
Ogni pianta staccata dalle radici muore, ogni uomo che cerchi nella negazione della sua storia famigliare il motivo per esistere prima o poi va in rovina.
Al margine stremo della disperazione è però accaduto qualcosa che solo può produrre l’affetto profondo.
Il padre è cresciuto, si è reso conto che, seppure negativo, il punto di riferimento per un figlio è il genitore, non il nonno.
Ma è cresciuto anche il figlio, e non perché abbia avuto la capacità di tagliare i ponti e trasferirsi a Londra, ma perché metaforicamente parlando ha compiuto il parricidio.
Diciamo che nel primo uomo ciò non è mai avvenuto e il nonno-padre è rimasto immutato nell’immaginario personale del figlio-padre come immagine sacra da venerare solamente senza mai opporvisi, nel secondo caso invece è avvenuto in maniera decisa e forse traumatica il distacco dalla figura paterna in nome della libertà per affermare la propria personalità. E forse si sono ritrovati, sicuramente per rinfacciarsi le colpe, ma anche per riannodare i fili dell’affetto sopito.
E per scoprire che ai figli bisogna dare ali per volare e ai padri il rispetto che proviene dalla considerazione e condizione genitoriale.
C’è stato bisogno della frattura, dello scontro silenzioso denso di grida di dolore, di urla di disperazione, del pianto nel timore della perdita, ma alla fine due nuove vite sono rinate, quella di un padre che ama il figlio, quello di un figlio che ama il padre.
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