La Morgue dell’Ospedale Rummo è deserta, solo le donne di Exit Strategy, una ragazza, un ragazzo, comuni cittadini venuti a portare l’ultimo saluto a Esther Johnson lì dove il suo corpo è rimasto in attesa di sepoltura per quasi un mese.
Un mese di ricerche, di domande senza risposte nella speranza che chi ha ucciso la giovane nigeriana prima o poi venga scoperto e giustamente condannato.
Sulla bara il nome, le date che restituiscono l’idea di una giovane età, di voglia di vivere, di speranze da sperare, e fiori di mani pietose che hanno avuto un pensiero per lei. Poi l’arrivo del compagno, dei parenti, delle amiche di Esther, dolore composto, lacrime che solcano visi ( il dolore non ha colore, il senso di perdita di una morte senza perché non ha colore) e l’arrivo al cimitero dove attendevano l’Arcivescovo Accrocca e l’assessore Patrizia Maio.
Tra i presenti, non quanti sarebbe stato doveroso aspettarsi, qualche cittadino comune, alcuni rappresentanti del mondo della cultura, volontari di alcune associazioni, Exit, naturalmente, e Caritas, assenti le altre associazioni (almeno così ci è sembrato) anche quelle che per statuto si occuperebbero del tema della violenza sulle donne. Assurdamente assenti i cittadini comuni, quelli che avrebbero dovuto rivendicare a gran voce l’opposizione alla violenza che si è perpetrata nella nostra “civilissima “città.
Ora, però, non è il tempo delle polemiche, ma è il momento della riflessione, del pensiero per questa vita strappata ai suoi sogni, ora è il momento di capire perché tutto questo dolore, ora è il tempo di restare vicini a chi quel dolore lo sente tutto sulla propria pelle, in terra straniera, dove una persona, per di più nigeriana e prostituta, sembra non avere diritto nemmeno al nome e Esther viene ancora da molti chiamata solo “la nigeriana”.
A Esther siamo tutti debitori: non abbiamo saputo accogliere lei né chi come lei come lei scappa da luoghi invivibili, con indifferenza l’abbiamo lasciata sola a lottare senza speranza per la sua dignità.
Ed è per rispetto alla sua dignità che pur avendo scattato tante fotografie, Teatri e Culture, pur contro le regole del diritto/dovere di cronaca, ha deciso di pubblicare solo quelle considerate meno devastanti, lo dovevamo a Esther, alla sua dignità, alla sua gente.
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