L’associazione culturale Isidea ha lanciato un’intelligente proposta – realizzare una copia del bassorilievo “Achille e Pentesilea” custodito dal Museo provinciale, copia da collocare sulla piazza di S. Sofia – e la Società storica del Sannio raccoglie questa iniziativa e desidera rilanciarla ampliandone la portata: apriamo allora il discorso per l’utilizzo museale della chiesa di Santa Sofia.
Questo tempio, come facilmente avverte ogni colto visitatore, non era nato per la pastorale destinata al popolo ma in funzione di cappella palatina per la Corte longobarda, con esercizio dei riti religiosi ad esclusivo beneficio dell’apparato ducale: i famigliari del Duca, i dignitari di governo, i monaci e le monache con residenza nell’attiguo centro conventuale. Allora l’altare era posto al centro della sala (a forma stellare) in modo che il celebrante (oppure chi intonava canti o preghiere) si trovava bene in vista dei fedeli che, essendo in pochi eletti, potevano seguire i riti nonostante la corona delle otto colonne.
Proprio tale struttura architettonica, che alcuni studiosi assimilano a quella dell’omonima grandiosa costruzione di Costantinopoli, illustra assai meglio di qualsiasi manuale la funzione cui era preposta al tempo della sua realizzazione. Esistono inoltre stampe antiche che confortano la netta separazione del complesso di S. Sofia rispetto alla vita esterna: una consistente muraglia circondava chiesa convento e palazzo ducale riservando a religiosi e cortigiani ivi residenti ogni pratica di fede nel tempio.
Al popolo veniva praticamente precluso l’accesso. Soltanto dopo il decadimento della struttura abbaziale, una volta abbandonate le sale di preghiera studio e scrittura riservate agli addetti, la primitiva destinazione decadeva e le autorità diocesane propendevano per aprire lo spazio all’intera comunità cittadina.
Oggi il problema si ripropone, sia pure in termini diversi, in quanto appare evidente l’incongruità dell’artistico tempio ai fini di una moderna pastorale.
In uno spazio assai ristretto, seguire la messa o altri riti diventa un esercizio poco invitante all’armonia di un popolo credente: i fedeli sono costretti a disporsi in modo dissociato tra sedili e banchi irregolari; le colonne impediscono la piena visione dell’altare o del podio per le omelie; all’offertorio, ai saluti di pace e alla comunione la confusione diventa consuetudine a causa dei ridottissimi passaggi liberi; il corteo dei celebranti, specie in caso di messe solenni o di funerali, non riesce ad esprimere solennità nell’incedere; i due vani accanto all’ingresso (peraltro posticci, risalgono al 1705) sembrano depositi di materiale religioso piuttosto che cappelle; una incongrua saletta, infine, è adibita a sacrestia per gli arredi e contemporaneamente a ufficio del parroco.
Pur essendo patrimonio culturale dell’umanità, un’accurata visita della chiesa risulta complessa dovendo fare i conti (orari) con le funzioni ordinarie e straordinarie oltre che con la carenza di informazioni turistiche: del resto non possiamo pretendere che un sacerdote assuma il ruolo di Cicerone.
A margine va rilevato che il campanile, distaccato per motivi di sicurezza sismica, è abbandonato a se stesso: la porticina è squassata, crepe erbacce e infiltrazioni si notano sulle pareti, tonnellate di materiale inquinante sottolineano la stabile dimora dei colombi. Qui la responsabilità ricade sul Demanio pubblico poiché sia la chiesa quanto il campanile appartengono allo Stato. La nostra proposta è precisa.
Consegniamo questo patrimonio dell’Unesco al Museo del Sannio che possiede tutti i requisiti per esaltarne la bellezza artistica e collegarne la sua storia a quella dell’intera città.
Ci rendiamo conto che una simile proposta sia destinata a sollevare polemiche, dubbi, avversioni. Il rinnovamento spaventa sempre i tiepidi e i conservatori ma questa è soltanto una sollecitazione sulla strada della migliore qualità di vita civica. Non bisogna dividersi tra laici e cattolici ma affrontare assieme il discorso con serenità, con tolleranza e con buon senso. Esaminiamo la questione superando gli schemi politici e le antiche contrapposizioni.
La Chiesa beneventana non ne soffrirebbe [forse ne patirebbero soltanto le entrate parrocchiali, assai cospicue, per i battesimi, i matrimoni, i funerali, e ogni altra cerimonia più o meno religiosa] ma dal punto di vista pastorale il contatto con la gente potrebbe addirittura guadagnarne ricorrendo a spazi più adatti, di cui non mancano le alternative: a breve distanza nella stessa zona, infatti, esistono almeno tre chiese da tempo trascurate pur presentandosi in ottime condizioni strutturali per un’autentica rinascita della fede ad maiorem Dei gloriam.
Parliamo di tre gioielli che si propongono alla comunità ecclesiale per eccellenza sia in materia artistica sia con riguardo a memorie storiche. Si tratta, nel caso specifico di San Salvatore, San Domenico, l’Annunziata.
Il Comune, a sua volta, non può stare a guardare e deve “metterci la faccia” (per usare un abusato frasario) offrendo alla Curia arcivescovile una contropartita.
Noi suggeriamo due interventi, a basso costo ma di grande rilevanza sotto il profilo dell’immagine.
La prima: realizzare un marciapiede in funzione di sagrato davanti al Duomo, area attualmente lasciata al movimento più anarchico di automezzi e persone.
La seconda: concedere in uso i locali di Palazzo Paolo V (e sarebbe anche un modo per valorizzare questo edificio sbarrato per undici mesi l’anno) che un tempo ospitavano il Monte Orsini allo scopo di accogliervi la banca Etica e gli uffici della Caritas. Veniamo infine all’arredo di piazza S. Sofia.
La proposta di Isidea consiste nel realizzare un calco di questo monumentale frontone di sarcofago del terzo secolo d. C. (metri 2,67 per 1,50 con spessore di centimetri 30) che raffigura il mito di Achille e Pentesilea tra guerra duello morte e amore. Un tempo, questo marmo decorava la fontana fatta costruire dall’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini proprio a ridosso del muro di cinta dell’abbazia: numerose stampe e acquarelli ne tramandano la posizione e la bellezza decorativa.
A margine, sarebbe storicamente rilevante completare l’assetto con la pulitura della targa che ricorda il periodo di Charles Maurice Talleyrand e con il ripristino della scalinata di accesso all’antica dimora dell’abate che si presterebbe benissimo quale ingresso per un itinerario alternativo tra le sale del Museo passando dal Villino Casiello la cui parte inferiore già appartiene alla Provincia. Lo spazio prospettico ha subito tante variazioni di assetto, lungo i secoli.
Un tempo una cintura di mattoni separava l’abbazia dal via vai popolare, poi le mura fecero posto alla condotta d’acqua, quindi la fontana trovò collocazione più all’interno, infine tanti filari di alberi abbellirono questa piazza che ha mutato nome a ripetizione.
Nell’Ottocento i beneventani la chiamavano ancora con l’appellativo di San Giovenale (forse per esorcizzare il principe francese che mai si degnò di visitare il donativo napoleonico ma ben si compiacque di farsi intitolare il superbo luogo), poi si tornò ad esaltare l’antica espressione di Sapienza – ed era la soluzione più logica – prima che il conformismo politico di certi amministratori locali non imponesse il nome del martire antifascista Giacomo Matteotti, nome rispettabilissimo ma lontano dalle memorie locali.
La saggezza popolare riesce comunque a prevalere su qualsiasi imposizione di regime, ed oggi nessun beneventano si darebbe appuntamento in piazza Matteotti ma sempre e soltanto “a Santa Sofia”.
Ci si domanda ovviamente quale potrebbe essere il destino della chiesa una volta sconsacrata.
Semplice: il vano ottagonale risulta molto adatto per ospitare ogni tipo di mostra tematica, collegabile al previsto bookshop della Provincia allocato al piano terra dell’ex-palazzetto Casiello e destinato alla vendita di cataloghi, pubblicazioni e oggettistica d’arte con l’affido ad una cooperativa di giovani .
Vale la pena di sottolineare quello che il recente francobollo celebrativo di S. Sofia ha dimostrato mostrando il tempio liberato da ingombri anomali, banchi e strutture estranee.
Il solenne vuoto del luogo rende il migliore omaggio ad una sacralità che supera gli officianti e il tempo, congiungendo direttamente il credente a Dio.
Giacomo de Antonellis, consigliere della Società storica del Sannio
Rito Martignetti, presidente dell’Associazione culturale Isidea
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