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Premio Strega 2022: ecco le prime dodici proposte
     
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mar 08-02-2022 19:29, n.13647 - letto 642 volte

Premio Strega 2022: ecco le prime dodici proposte

Le candidature entro il 1 marzo

di Elide Apice


Carmine Abate - Il cercatore di luce - Mondadori
Presentato da Alessandro Masi
 «Con Il cercatore di luce Carmine Abate conferma la piena maturità espressiva di un ormai lungo percorso nella narrativa italiana di alta qualità letteraria e di ininterrotto riscontro da parte del pubblico dei lettori e della critica.
Si tratta di un romanzo storico, romanzo di formazione, storia famigliare e di impegno civile, in cui l’autore sintetizza diverse modalità di genere narrativo e le scardina tutte dando origine a un modello romanzesco originale e fortemente coinvolgente.
Il libro ritorna sui temi che hanno caratterizzato da sempre la sua poetica (e in particolare su quel “vivere per addizione” che sintetizza l’approccio all’emigrazione che Abate ha vissuto sulla sua pelle e ha messo in scena in tanti romanzi) su cui l’autore innesta inedite esplorazioni verso nuove frontiere dove approfondisce i rapporti fra arte, natura, parola e esistenza.
Per raccontare la breve vita abbagliante del maestro del Divisionismo Giovanni Segantini, Abate ne segue le tracce in tutti i suoi febbrili spostamenti alla ricerca spasmodica della luce, alimento indispensabile di una vita e di un’esperienza artistica all’insegna del senso di apertura, di liberazione e di respiro che sulla pagina viene restituita con limpida e coinvolgente partecipazione.
Al servizio di temi tanto decisivi e affascinanti l’autore mette una tecnica narrativa consapevole e sicura che gli permette di costruire un meccanismo di precisione in grado di guidare il lettore nei diversi livelli temporali (l’Ottocento, il tardo Novecento, il Ventennio fascista) e geografici (il Trentino, l’Engadina, la Sila calabrese, Milano) in cui si svolge la vicenda.
Di particolare rilievo le figure femminili, la Moma calabrese, memoria storica della famiglia dell’io narrante e Bice Bugatti compagna di tutta una vita che con Segantini ha costruito una straordinaria storia d’amore. La lingua di Abate è calda e trasparente, piana e ricchissima, precisa e poetica come la pittura di Segantini.»
 
Marco Amerighi - Randagi - Bollati Boringhieri
Presentato da Silvia Ballestra
 
«I randagi di Marco Amerighi sono cuccioli, e poi giovani cani sciolti, alla ricerca di sé in un peregrinare tra amori e luoghi nel tentativo di sfuggire a famiglie, seppur presenti, spesso esplose. È il racconto di una generazione che diventa grande secondo i riti classici – studio, passioni, promesse, delusioni, amicizia, amore, sesso, lutti, scandali, dolore – e fatica a fare i conti con padri, quando non gaglioffi, sicuramente inadeguati. Vale per il protagonista Pietro Benati, giovane uomo quieto e perbene (ma anche per il fratello maggiore Tommaso) e per i due incasinati coetanei, Dora e Laurent, che diventeranno compagni del suo girovagare tra Pisa e Madrid. Sullo sfondo, la cronaca, appena accennata ma incombente nella sua violenza e perenne minaccia, racchiusa tra le botte ai ragazzi che hanno aperto gli anni Duemila e i terribili attentati terroristici nelle città. Randagi è, in questo, davvero una storia in grado di cogliere l’essenza di un tempo e dei giovani che, impotenti e spaesati, lo hanno abitato. Personaggi memorabili e una lingua bella e tornita, quella di Amerighi, che con misura e sapienza ci regala echi luminosi e ironici di toscanità anche classica. Un romanzo importante, libero, vitale, caratterizzato da un’affabulazione felice e trascinante, ricca e compiuta.»
 
Andrea Inglese - La vita adulta - Ponte alle Grazie
Presentato da Franco Buffoni
 
«Andrea Inglese (Torino, 1967), già molto noto come poeta, esordì come narratore nel 2016 con Parigi è un desiderio (Ponte alle Grazie) ricevendo notevoli riscontri critici.
Con questo secondo romanzo, La vita adulta, apparso nell’aprile 2021, Andrea Inglese si conferma – tra i nuovi narratori italiani – come uno dei più preparati, colti e inventivi. E soprattutto provvisti di stile.
Poiché la valutazione dello stile può compiersi solo attraverso la citazione almeno di un passo, propongo il seguente: “Non ho quella dedizione alla causa che hanno i critici più giovani, anche perché, di tanto in tanto, ho pure due o tre idee originali, e ci tengo a difenderle. Ed è un lusso che loro in genere non si possono permettere. Il mestiere è ingrato, con sempre meno soldi che circolano e sempre più gente che pretende di farlo. Si sopravvive se ci si abitua subito a seguire il vento che tira. Per certi aspetti funziona per i critici giovani come per gli artisti giovani: bisogna prima assicurarsi in tutti i modi di essere dentro, di venir accettati, di non spaventare nessuno, poi si valuta, senza alcuna fretta, se si ha anche qualcosa d’importante o nuovo da dire”.
Si parla di lavoro, dunque, in questo romanzo, ma di un comparto poco “lavorativo”, almeno se giudicato dall’esterno: quello della cultura e dell’arte contemporanea. Con il plot che si sviluppa tra varie città europee, in particolare Milano e Berlino (per incidens l’autore abita da più di dieci anni a Parigi). La storia di Tommaso e Nina diventa così un viaggio nelle metropoli che cambiano, nei costumi che si trasformano, nelle ossessioni socio-identitarie dei nuovi cinquantenni, incapaci di diventare adulti al modo dei padri. E incapaci di diventare padri a loro volta, come si dovrebbe.
Nina è una performer: dopo aver sfiorato il successo internazionale con un esordio folgorante, si è quasi ritirata dalla scena artistica per non lasciarsi condizionare da convenzioni e strategie di carriera. Nina e Tommaso così si incontrano e si riconoscono come due personaggi in cerca di vie di fuga.
Come ha scritto Helena Janeczek, “Andrea Inglese è uno dei pochi scrittori italiani di oggi capace non solo di fare narrativa ma anche letteratura”.»
 
Roberto Livi - Solo una canzone - Marcos y Marcos
Presentato da Filippo La Porta
 
«Un romanzo che proviene da una malinconica provincia italiana, tra Marche e Romagna, tra orchestrine di liscio, motoraduni e non-luoghi dispersi nel paesaggio del Rinascimento, una ballata straziante come un blues, che inventa uno “sguardo”, quello dell’io narrante, candido e maniacale – cameriere con diploma di terza media – e discende da una costola della linea emiliana dei Celati e Cavazzoni. Un personaggio “non sapiente”, cui il padre – sassofonista in un complessino di polke – comprava atlanti ed enciclopedie, che rimugina caparbiamente sul mondo e su di sé, con una vocazione al fallimento. Livi ha saputo dare voce –poeticamente – a una alterità assoluta, a un tipo umano deragliato: “Povera Ava, a lei è toccata la parte della persona normale, a me è toccata la parte del tipo strano che dice sempre no”.
Presenta una lingua che, pur appartenendo a quel filone letterario “emiliano”, rifugge da ogni tentazione manieristica e anzi possiede una vibrante freschezza: il ritmo lievemente sincopato del monologo interiore, un effetto di parlato della strada (con vaga eco dialettale o gergale: “era così bello desiderare le donne, sdocchiarle”), una naturalezza naïf appena straniante (anch’essa artificio formale). Si tratta di una naturalezza, finemente lavorata, nata non tanto da una poetica aprioristica quanto dall’esperienza stessa. Micro-romanzo di formazione, interi destini condensati in una frase: “Io e la gente abbiamo litigato tanti anni fa e ormai non ho più speranze di far pace”.
Ha delle invenzioni narrative straordinarie e intriganti: ad esempio quando il protagonista si lascia con la moglie e si innamora della cassiera Agnese, si vergogna a inviarle per mail una dichiarazione d’amore che ha scritto. Allora col traduttore automatico la traduce in lingua zulu, aggiungendole di ritradurla dallo zulu in italiano.
Nelle istruzioni per comporre una canzone, da parte del maestro un po’ mattoide, troviamo una indicazione metodologica utile in qualsiasi campo artistico. Per scrivere una canzone occorrono anzitutto rabbia (“è dalla rabbia degli oppressi che sono nati i grandi capolavori”), poi fiducia in sé stessi, e infine la regola delle regole: “devi imparare a fare schifo”. Qualsiasi melodia “quando esce dalla testa fa schifo”, in seguito viene messa a posto. All’inizio bisogna abbandonarsi liberamente all’ispirazione, senza paura di essere banali, poi occorre limare e dare una forma, immaginando di trovarsi in un teatro pieno, con tutte le persone che conosci.»
 
Gaia Manzini - Nessuna parola dice di noi - Bompiani
Presentato da Maria Ida Gaeta
 
«Invio con piacere e grande convinzione la proposta di candidatura per il Premio Strega 2022 del romanzo Nessuna parola dice di noi di Gaia Manzini. È un romanzo che ho letto diversi mesi fa ma mi è rimasto nel cuore e che, tra le mie letture dell’anno, si è ritagliato uno spazio importante. Ho amato la qualità della scrittura, la costruzione della trama e dei personaggi e, soprattutto, la coraggiosa determinazione dell’autrice nel voler scavare in profondità temi grandi, come io mi aspetto che faccia la letteratura.
È un romanzo che svela e analizza la condizione femminile contemporanea attraverso il racconto della vita di una giovane donna e delle sue unioni imperfette con la figlia, con la madre, con il lavoro, con l’uomo di cui si innamora. Ed è proprio raccontando queste imperfezioni, il faticoso percorso per conquistare una maternità consapevole e il complesso incontro con l’amore, che si delinea pian piano nel testo un ritratto di donna credibile, con il suo insieme di fragilità e tenacia e con il suo conflitto tra desideri e doveri.
La lingua che si fa strumento di questo racconto ha uno stile peculiare e raro. L’autrice appare sempre consapevole della relazione tra il linguaggio e le forme di vita che vuole narrare. La stessa giovane protagonista del romanzo, Ada, che di mestiere è, emblematicamente, copywriter ha un rapporto complesso con le parole, che sa gestire con disinvoltura e talento nel loro uso pubblico, quando deve comunicare dei prodotti, ma che diventano lo specchio delle sue difficoltà e dei suoi sbandamenti nel loro uso privato, quando vuole mettere a fuoco il rapporto con sé stessa e con gli altri. Sarà l’autrice a trovare per lei e per la sua storia le parole giuste, le parole per descrivere i sentimenti, le ansie, le scoperte di una giovane donna in continua evoluzione.
Gaia Manzini, che abbiamo già amato e letto nei suoi precedenti libri, con questo romanzo supera una nuova sfida e aggiunge una pietra preziosa al suo percorso di scrittrice. Io credo che meriti pienamente la nostra lettura e la nostra attenzione.»
 
Massimo Maugeri - Il sangue della montagna - La nave di Teseo
Presentato da Maria Rosa Cutrufelli
 
«È stato definito un “romanzo-mondo”, dalla struttura ampia, che spazia attraverso il tempo, intrecciando storie contemporanee a storie di secoli lontani. Un romanzo epico che si muove su vari registri, in un gioco di abilità che rivela sapienza letteraria e risolve gli snodi narrativi con una forte tenuta stilistica: questo è Il sangue della Montagna, di Massimo Maugeri (La Nave di Teseo).
La Montagna è il nome che i siciliani danno all’Etna, madre-matrigna che domina l’isola e “tutto dà e tutto toglie”. Che regala distruzione e sogni di rinascita. Fucina di miti e luogo letterario per eccellenza. Non è “una” montagna, ma “la” Montagna per definizione, solitaria e maestosa, signora e padrona della vita, della morte e delle stesse ambizioni umane, piccole o grandi che siano.
I protagonisti del romanzo, un uomo e una donna, Marco Cersi e Paola Veltrami, vivono all’ombra della Montagna. Paola Veltrami è una donna piegata dal lutto, alle prese con una figlia difficile, ma che non si dà per vinta. Una docente di letteratura che insegue un progetto generoso e immenso: trovare un modo per cambiare il modello economico e farlo diventare più giusto, più a misura d’uomo. Marco Cersi è invece un imprenditore. Con coraggio e temerarietà, tenta di rendere fruttuosa la pietra lavica, di trasformarla in un “prodotto”, di piegarla alle sue esigenze. Forse, quello che cerca è un risarcimento simbolico, qualcosa, una luce che rischiari il lato oscuro della Montagna.
Ma solo il vecchio intagliatore don Vito, artista e poeta, può addentrarsi in questo lato oscuro e gustarne l’essenza. Don Vito, il “nipote della lava”, figlio di un uomo nato proprio durante un’antica eruzione e che sente scorrere nelle vene quel fiume di fuoco. Un personaggio-chiave, attorno al quale si dispiegano sentimenti, passioni, fantasmi. Il suo mistero è, in un certo senso, il motore segreto del romanzo.
La scrittura di Maugeri è magmatica, a volte perfino ipnotica, densa come la lava della sua Montagna. Un vulcano che, nell’immaginario degli isolani, è “femmina” e madre. Madre buona e Madre cattiva al tempo stesso. Si avverte, nel libro di Maugeri, un amore trepido per la propria terra e per la Montagna magica che la sovrasta. E anche per questo amore che ho sentito vibrare in ogni riga, in ogni frase, desidero presentare il romanzo di Maugeri, con il suo consenso, all’edizione 2022 del Premio Strega.»
 
Benedetta Palmieri - Emersione - Nutrimenti
Presentato da Alberto Rollo
 
«Con molto entusiasmo sottopongo alla vostra attenzione il romanzo Emersione di Benedetta Palmieri.
La voce che dice io – e che sappiamo essere chiamata Hornby – si sveglia al dolore di una perdita incomprensibile: l’uomo che ha amato si è ammazzato. Tanto violenta, tanto drastica è la sua assenza che Hornby non può far altro che strapparlo all’Ade e averlo come interlocutore naturale, come imperioso tu allocutorio a testimoniare quando la sua presenza è stata tormento e passione. E tale avrebbe potuto continuare a essere. L’uomo non era un depresso, né era angustiato da collassi esistenziali. Tutt’altro: entra nella narrazione come una mente lucida, come un fascinoso professore, come un’interiorità ricca, avvolgente. È semmai lei a contare indecisioni, viluppi di incertezza, pigri vuoti dell’anima. Sa di non averlo saputo tenere, quell’uomo, sa di aver lasciato fare al caso. Eppure quanta passione, quanta tenerezza, quanti notti con le dita agganciate nei suoi boxer. C’è rabbia ora, nella nuova solitudine, c’è alcol, c’è un silenzio che oscura la stessa vitalità della natura – durante i soggiorni a Stromboli o a Massa Lubrense –, e che neppure la vitalità della città in cui è radicata come una pietra vulcanica sa colmare veramente di promesse. Hornby insegue il suo fantasma, lo spinge, lo strattona, fino a condurlo, a strappi struggenti e feroci, fuori dalla ferita in cui non ha mai smesso di abitare. E, una volta accompagnato fuori, Hornby può contemplarsi, con sgomento, finalmente emersa.
Palmieri racconta il suo inferno con voce tagliente, cruda, innamorata. Ricorda talvolta Annie Ernaux, talvolta Joan Didion, talvolta Elsa Morante. Formicola tra le righe un’urticante intelligenza delle cose del mondo, soffia sulle pagine un desiderio di riscatto, che coincide con la stessa sostanza della scrittura, riscatto essa stessa, a fronte della cattiva marea del nulla.»
 
Giulio Perrone - America non torna più - HarperCollins
Presentato da Elisabetta Mondello
 
«Candido al Premio Strega 2022 America non torna più di Giulio Perrone, pubblicato da HarperCollins. È un libro intenso, rabbioso, tenero e capace, come accade ai romanzi autobiografici migliori, di trasformare la storia personale dell’autore in una materia narrativa che interroga il lettore sui propri ricordi, emozioni, sogni. Sulle incomprensioni, divergenze e dissonanze tipiche della relazione genitori/figli. Il tema è il difficile e doloroso addio al padre di quel ragazzo ventenne che era Giulio, trasformatosi oggi in un io narrante impietoso con sé stesso per le parole dette e per quelle non dette, ostinato nel reimmergersi nelle dinamiche di una relazione affettiva anche conflittuale sul piano delle scelte e misurato nel rievocare la condivisione dei ricordi del padre. Della sua giovinezza fatta di avventure allegre e picaresche, evocate in inserti testuali in corsivo, e di amici dai soprannomi vagamente generazionali. Godzilla, Karate e America che non torna, come non ritorna il passato. Romanzo coraggioso, coinvolgente ma non angosciante nel rievocare un percorso di formazione che ha obbligato il ragazzo di allora e l’adulto di oggi a riflettere sulla complessità della condizione di figlio, trova una soluzione narrativa adeguata alla storia nel sostegno di una scrittura emozionale, nitida e attenta.»
 
Daniela Ranieri -Stradario aggiornato di tutti i miei baci - Ponte alle Grazie
Presentato da Loredana Lipperini
 
«Un libro come Stradario aggiornato di tutti i miei baci di Daniela Ranieri (Ponte alle Grazie) è uno dei testi più importanti letti negli ultimi tempi. Esito a definirlo romanzo perché è un libro che prescinde dalla forma, senza definizione possibile se non quella che hanno avuto i concupiscenti illusionismi di Manganelli (anche se il modello dichiarato di Ranieri è Gadda). È un libro coltissimo ma insieme innervato di passioni, amore morte preghiera. È un inganno (non è un memoir) ed è sincero come può esserlo la letteratura. È un labirinto di carne e parole (e profumi) dove ci si smarrisce, ci si ferma, si torna a leggere. La sua levatura letteraria lo rende più che degno di concorrere per l’assegnazione del Premio Strega.»
 
Luca Ricci - Gli invernali - La nave di Teseo
Presentato da Guido Davico Bonino
 
«Gli invernali di Luca Ricci è la tavola periodica degli elementi di noi umanisti, dentro ci siamo proprio tutti – scrittori e critici, funzionari editoriali e agenti – ma non pensiate a una bagattella, qui il riso è da intendersi nella sua accezione più profonda e teatrale: come sostituto del pianto. E teatrale è l’impostazione della pagina, con un testo che finalmente è in grado di dirci qualche cosa, che per una volta trascina il teatro sulla pagina (e non il contrario!). Ricci lo leggo dall’inizio dei suoi racconti che ho avuto modo di definire “minuziosi e traslucidi”, mi accompagna e lo accompagno, leggetelo e vi darà il piacere del talento all’opera.»
 
Vanni Santoni - La verità su tutto - Mondadori
Presentato da Edoardo Nesi
 
«Per come riesce a portarci per mano lungo sentieri di sapienze dimenticate, antiche o modernissime che siano, La verità su tutto di Vanni Santoni mi pare un’opera notevole.
In questo romanzo ragguardevole tutti i personaggi sono o sono stati alla ricerca di qualcosa d’invisibile che possa nobilitare la vita, ma poiché, come ben sappiamo, non tutto ciò che manca si vede o si può trovare, son condannati a continuare a cercare.
Il che, oltre tutto, credo sia anche il gran mestiere della letteratura.»
 
Alessandro Zaccuri - Poco a me stesso - Marsilio
Presentato da Helena Janeczek
 
«Milano, 1841. In un’estate oppressa dall’afa, Giulia Beccaria riceve le amiche, ignara che la sua vita stia volgendo al termine. L’anziana marchesa è rimasta una donna dal carattere amabile e dalla mente appassionata formata nell’ambiente illuminista del padre Cesare. E qui finisce la parte storica di questo “componimento di storia e d’invenzione” imperniato su due personaggi entrambi alloggiati in casa Beccaria. Il barone de Cerclefleury, invitato a dimostrare la forza rigenerativa del magnetismo appreso dal Mesmer in persona, e Evaristo Tirinnanzi, che deve alla nobile benefattrice l’essere stato scelto come contabile tra i rari trovatelli di intelligenza così spiccata da aver potuto accedere agli studi. Fascinoso e sicuro di sé il barone, balbuziente e ombroso il contabile, formeranno una coppia di apparenti opposti. Ma, in un continuo gioco di specchi e di sdoppiamenti, li avvicina l’incertezza su chi siano veramente. Domanda quanto mai sofferta dal Tirinnanzi che, ignorante di chi lo abbia messo al mondo, si trova per giunta abitato da una voce che gli detta delle frasi incomprensibili. Chi è quell’altro di cui non sa liberarsi? E perché non è riuscito a liberarsi neanche dell’unico vizio, il gioco, che ora lo espone alle ritorsioni del peggior biscazziere del famigerato quartiere del Bottonuto?
Dedita a imitare un potere che porta alla rovina o alla salvezza, la letteratura è gioco, invenzione, illusionismo. Presente anche dove pare minima, l’invenzione e il suo rapporto con la verità è uno dei miei chiodi fissi come scrittrice. In questo romanzo, non solo per me insolito, ho quindi molto ammirato la coerenza ideativa e la felicità del flusso narrativo. Possiamo leggere Poco a me stesso godendoci l’aspetto giocoso che riverbera nel gusto di rifare il verso al romanzesco di una volta e nel piacere di ricreare una Milano di cui sono rimaste poche tracce. Alessandro Zaccuri dev’essersi divertito a scrivere questo libro e ce lo trasmette sin dalla prima pagina. Ma nell’infanzia, quando il gioco è una cosa seria, cambiando una storia si sperimenta un potere non inferiore che nell’inventarla di sana pianta. Come sarebbe stata la nostra letteratura se il figlio di Giulia Beccaria fosse nato nel giorno in cui nacque, ma senza poter diventare il Manzoni? Sarebbe stata piena di romanzi sfavillanti di intrighi e di uno stile a bell’effetto, ma neanche lontanamente all’altezza dei Promessi Sposi. Con un esperimento mesmerista ringiovanente, un atto d’amore un po’ folle come lo è il povero contabile perseguitato da quell’altro, Zaccuri ha voluto dedicare proprio questo genere di romanzo a Alessandro Manzoni.»


 
 


 

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