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ven 29-09-2023 n.14236, Maria Pia Ciani

"Io, capitano": sarebbe bello potesse rientrare tra i film candidati nella sezione “Miglior film straniero”alla prossima edizione degli Oscar

Le recensioni di Maria Pia Ciani


Mi piacerebbe che “Io Capitano” potesse rientrare tra i film candidati nella sezione “Miglior film straniero” alla prossima edizione degli Oscar, non per patriottismo ma perché il racconto di quel viaggio possa conoscerlo il mondo.
Chi si aspettava un film sull’atteggiamento di accoglienza più o meno politicamente corretta, resterà deluso/a.
I sottotitoli diventano necessari in un film dove la scelta di mantere la lingua originale conferisce un taglio più vicino ad un docufilm piuttosto che ad un lungometraggio di finzione.
Martone descrive quel viaggio “della speranza e della sopravvivenza” sposando un principio di verità: il viaggio non è il “barcone”, quella è solo l’ultima tappa di un calvario che inizia quando si decide di raggiungere l’Eden.
Mi piace molto che Martone non abbia descritto la storia di chi fugge da guerre, situazioni di privazioni, di diritti negati.
Il regista racconta la vita di due adolescenti che vivono in Senegal, hanno famiglie numerose a cui sono affezionati, madri premurose e concrete, frequentano la scuola la mattina, danno il cambio alle madri al mercato e si ritrovano la sera con amici ed amiche con cui condividono tempo e sogni.
Vivono in un luogo dove non ci sono opportunità, lontano dall’opulenza del successo a cui si può ambire più come riscatto sociale che per ambizione. Una storia di migranti così come è stata vissuta dal nostro Paese nel dopoguerra, quando gli italiani con la valigia di cartone coltivavano il sogno americano e si imbracavano sui translatlantici verso la terra “della fortuna”.
La verità raccontata da Martone è la disumanizzazione di uomini che dall’inizio del viaggio nelle terre africane fino a Tripoli, mercificano sul quel viaggio: dal passaporto falso alle tangenti pretese da presunti poliziotti, dai luoghi di ritrovo alle auto sovraccariche di persone, dalle promesse fatte alle reali condizioni in cui poi i migranti affrontano quel viaggio.
Le sevizie a cui vengono sottoposti dalla polizia corrotta alla ricerca di somme necessarie a sostenere quel viaggio.
Il sequestro di persona subito quando vengono intercettati nel deserto, le torture perpetuate e la speranza di essere venduti come schiavi, pratica che rappresenta l’unica salvezza.
Il deserto del Sahara è un cimitero ben più del Mar Mediterraneo.
Gabbie senza via di scampo: il caldo asfissiante nelle abitazioni fatiscenti, città disastrate dove la ricerca del bello è una pratica impossibile, il giallo del deserto senza punti di riferimento, le automobili cariche che rimbalzano sulle dune come il barcone naviga sulle onde, l’azzurro del Mar Mediterraneo dove non si scorge terra.
Gabbie che stanno strette a vite che meritano di essere vissute, che decidono di vivere altrove, in quell’altrove che non somiglia all’Eden ma che sembra addirittura essere gentile nel suo modo di accogliere. Anche un solo sorriso dopo quell’inferno, rassicura.
Simbolica nel film l’immagine più condivisa sui social, quella che diventerà iconica del film: Seydou cammina nel deserto con il braccio sollevato la cui mano stringe una donna avvolta in un abito verde smeraldo. Sembra un quadro di Chagall.
Il rumore del vento è così chiaro da far sentire la sabbia sulla pelle, il rombo del motore del barcone che solca lentamente le onde. Le urla di dolore delle persone seviziate nella prigione nigeriana, il respiro affannato, il pianto trattenuto, i lamenti del delirio.
E poi “Io Capitano” urlato a gran voce, liberatorio e vittorioso di chi a soli 16 anni, ha traghettato tantissime vite senza perderne nemmeno una.


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